Meeting Camilleri

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Intervista a Camilleri

di Valentina Colasanti & Giuseppina Silvestri

Roma, 31 marzo 2016

Nel marzo del 2016, io e Valentina abbiamo incontrato Andrea Camilleri a casa sua a Roma. Gli abbiamo posto domande che ci hanno permesso di parlare con lui della lingua e delle lingue che ha impiegato nei suoi scritti. La nostra intervista fa parte di un progetto più ampio promosso dal Dipartimento di Italiano dell’Università di Cambridge: ‘Intervista con Andrea Camilleri’. Di seguito riportiamo la versione integrale della nostra intervista. / In March 2016, Valentina and I met with Andrea Camilleri at his home in Rome. Our questions were centered on the language(s) that he employed in his writings. Our interview was part of a more extended project supported by the Department of Italian of the University of Cambridge: ‘Interview with Andrea Camilleri’. The full version of our interview follows below:

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I suoi romanzi sono la testimonianza letteraria attuale più significativa della varietà linguistica dell’Italia. Ne Il birraio di Preston ciascun personaggio-chiave ha una sua propria varietà linguistica (fiorentino, romanesco, piemontese, nonché l’immancabile siciliano). La parlata dialettale finisce per caratterizzare anche la personalità di quelle figure, la loro psicologia. O forse è attraverso le peculiarità della lingua che si esprime la loro indole che ne determinerà il ruolo nella vicenda e la loro drammaturgia totale. Pertanto, la scelta linguistica del non-italiano è molto più di una scelta stilistica?

Certo. È un tentativo di storicizzare l’Italia di quel momento. Noi ci troviamo a pochi anni dopo l’Unità d’Italia -no?- e quindi ancora la presenza dei dialetti è fortissima…fortissima. Se immediatamente dopo l’Unità d’Italia viene istituita la leva obbligatoria, cosa che in Calabria, in Puglia e in Sicilia non c’era. La leva obbligatoria, che fa nascere delle rivolte popolari, addirittura  è una necessità del governo centrale per far sì che gli italiani trovino una lingua comune. Perché il vero miracolo della spedizione di Garibaldi in Sicilia nel 1860 non è lo sbarco. È il fatto che in due giorni di navigazione siciliani, piemontesi, bresciani, napoletani, veneziani si ritrovino su due grandi barche pronti per andare a combattere e che hanno molta difficoltà a capirsi fra di loro. Invece, al momento che sbarcano si capiscono benissimo e combattono benissimo. Allora il problema è estendere questo miracolo in tutta Italia. E allora si dice “facciamo che una divisione sia composta da pugliesi, veneziani e toscani. Un’altra da piemontesi, umbri e napoletani. In maniera di creare, far parlare questa lingua italiana a tutti.”

Allora, nel mio Birraio di Preston io tento di dare un quadro della diversità linguistica dell’Italia dopo, poco dopo l’Unità. -Mi spiego?- Questo è il tentativo. E allora i personaggi veramente si definiscono attraverso il loro dialetto e il loro modo di parlare. È una sorta di romanzo a tasselli, di romanzo a mosaico di parlate. Ma io questo volevo rappresentare. Allora, che cosa succedeva? Che ognuno parlava nel proprio dialetto. Nel momento in cui volevano parlare in italiano ed intendersi fra di loro, usavano un italiano basico, un italiano di poche parole elementari. Mentre la ricchezza del dire e del pensiero restava all’interno dei loro dialetti. Non so se sono stato chiaro.

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Il dialetto messo in bocca ai suoi personaggi non è del tutto reale e si avvicina di più -con grande approssimazione- a quello che si definisce forse ‘italiano regionale’, una lingua di koiné, ecumenica del siciliano. Del resto, l’uso di un dialetto -diciamo pure- ‘dialettu strittu’, genuino, forse inficerebbe l’intellegibilità dei suoi scritti.

Il problema della non-intellegibilità fra un palermitano e un triestino Lei sembra averlo risolto strepitosamente.

Sembra, però, che il siciliano dei suoi lavori sia una lingua altra, un codice a sé, creata da lei, sulla base di un linguaggio solo parlato. Nel tempo questa lingua sembra addirittura essersi evoluta insieme alla sua narrativa, pur continuando ad odorare di palcoscenico, di un theatron -come dire- sommerso.

È, questo siciliano, la sua lingua interiore, quella dei suoi pensieri? Una sorta di lingua madre?

Qui entriamo in un problema molto complesso che riguarda me scrittore. Cioè a dire: io sono nato in Sicilia in un’epoca in cui i siciliani parlavano solo ed esclusivamente il dialetto. Sono vissuto durante il periodo fascista, durante il quale i dialetti vennero severamente proibiti – l’uso del dialetto. Quindi, io, a cominciare dalle elementari e a proseguire fino al ginnasio, al liceo, l’italiano l’ho imparato esattamente come si impara una lingua straniera, il francese o l’inglese o il tedesco.

-Chiaro? Benissimo.- Quindi, la mia lingua di base è sempre rimasto il dialetto siciliano. Naturalmente poi all’università, eccetera eccetera, è intervenuto l’italiano. È intervenuta quasi la scoperta dell’italiano, perché una cosa è studiarlo e una cosa è scoprirlo per i fatti propri. Il miracolo a me è successo attorno ai 17, 18 anni con una rilettura privata e non scolastica di Manzoni e precisamente della Storia della Colonna Infame che mi ha fatto rileggere di mia spontanea volontà I Promessi Sposi che prima mi erano rimasti assolutamente ostici e noiosi, durante lo studio scolastico. Quindi, io mi trovai finalmente ad essere bilingue, cioè ad avere contemporaneamente dentro di me il dialetto siciliano e il dialetto italiano.

Ho cominciato a capire che l’italiano noi lo usavamo in particolari momenti, cioè a dire nei momenti nei quali si voleva fare il punto fermo su una situazione. Nel momento nel quale si voleva esprimere con estrema chiarezza il proprio pensiero, nel momento nel quale si voleva -come posso dire- dare un’intimazione, un ultimatum, qualche cosa che avesse un aspetto, una caratteristica di ufficialità. Mia madre diceva: “Nené, pi favuri cerca di turnare prestu  a casa…”,  e parlava in dialetto. Era la mozione degli affetti. “Perché io non riesco a pigliare sonno si tu no torni. E se questa storia dura ancora…” Ecco, e passava all’italiano, perché c’era l’intimazione poliziesco-notarile.

Allora quando ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo nel tentativo di trovare una voce mia personale, che è stata sempre la mia ambizione, ho cominciato a scrivere mischiando dialetto e lingua italiana. E scrissi il romanzo Il corso delle cose e lo feci leggere a un grandissimo critico e amico fraterno mio, Nicolò Gallo, col quale ci vedevamo ogni sabato. Quando gli mandai questo mio romanzo, Gallo scomparve dalla mia vita per un mese, tanto che gli scrissi un biglietto: ‘Caro Gallo, se tu per un brutto romanzo che ti ho mandato hai deciso di non vedermi più, fai finta di non averlo ricevuto’. Gallo mi rispose immediatamente. Mi disse: ‘Vieni a trovarmi’. E trovai il mio manoscritto costellato di annotazioni e pieno di tanti foglietti accanto. E Nicolò mi fece un ragionamento -Gallo- molto serio. Mi disse: “Tu sei sulla strada, una buona strada, una strada difficile da percorrere. Tu stai scrivendo, hai scritto un romanzo che mischia, con molta naturalezza, dialetto e italiano. Non basta. Dovresti spingere il pedale ancora di più. Far sì che queste due lingue convivano, ma reinventate da te”.

Dopo aver scritto questo romanzo, sono passati per dieci anni e nessun editore me l’ha mai voluto pubblicare, forse perché era scritto in un certo modo. Ma l’insegnamento di Gallo -di Nicolò- è durato dentro di me. Allora, dal momento in cui ho cominciato a scrivere -che so?- La stagione della caccia, quel dialetto siciliano -mi dovete credere- solo in parte esiste. Tant’è vero che alcuni miei amici mi dicevano: “Ma compà, ma noi non l’adoperiamo questa parola, non c’è”. Ed io dicevo: “Non c’è perché non esiste”. Com’è nata questa cosa? È nata leggendo Pirandello, leggendo soprattutto Il Ciclope, che è la traduzione che Pirandello fa del Ciclope di Euripide. E lo fa in dialetto siciliano. E adopera non medo di tre parlate all’interno del dialetto: la parlata del ciclope che è quella di un grosso contadino proprietario terriero, la parlata di Ulisse che ha girato il mondo e quindi parla in un italiano molto sicilianizzato e la parlata di Sileno, il capo dei pastori, che è un mafioso e parla per allusioni. Allora a me venne l’idea: e se io mischio queste tre parlate? E cominciai da lì, da questo shakeraggio tra italiano e parlate diverse. Dopodiché decisi di fare un passo ulteriormente in avanti, cominciare ad esempio a crearmi un linguaggio tutto mio, per esempio con l’alterazione della coniugazione dei verbi o con le allitterazioni frequenti. Insomma, questa ricerca dura ancora, tant’è vero che quando io riprendo tra le mani un romanzo di tre, quattr’anni fa, e lo devo pubblicare ora, io sono costretto a riscriverlo di sana pianta perché intanto questa ricerca mia è andata avanti. È un work in progress.

Ecco. Volevo dire, ma con molta vergogna, che io ho cercato di creare un linguaggio tutto mio, un idioletto. Cioè la lezione di Joyce, la lezione dello stesso Beckett, mi sono servite moltissimo per cercare di trovare un linguaggio che avesse l’imprimatur della mia voce narrativa. In parte ci sono riuscito, in parte no, perché tutt’ora ancora è una fase aperta di ricerca. E quando uno ha paura a pronunciare… io ho cercato di creare un idioletto, una lingua che nessuno parla che poi finiscono col parlare tutti, una lingua mia e che è impossibile… -sì, è possibile forse imitare ma che è sostanzialmente mia. Vedete, ora che io non ci vedo più, da due anni a questa parte, ho imparato a dettare. Ma dettare a chi? Allora fortunatamente ho la mia collaboratrice, Valentina, da 14 anni, che ha imparato il mio linguaggio. Se non avessi lei, io non potrei più scrivere, perché lei è l’unica in grado di, sotto dettatura, di scrivere il mio vigatese, il mio linguaggio. Addirittura, è in grado anche di correggermi certe volte. C’è un’altra persona, fortunatamente, che parla lo stesso linguaggio col quale io scrivo.

Non so se sono stato chiaro.

(3)
Eppure l’italiano, quello standard, non manca mai. Soprattutto quando occorre esprimere con chiarezza un ragionamento lucido carico di responsabilità. Per esempio, il commissario Montalbano inchioda il colpevole comunicando la ricostruzione del delitto sempre in italiano. Perché questa scelta? Se usasse il suo siciliano, il momento perderebbe di solennità? La ricostruzione parrebbe più approssimativa? Il commissario stesso sembrerebbe meno credibile? Insomma, la verità deve necessariamente andare a sciacquarsi i panni in Arno?

Il fatto che il commissario Montalbano, a un certo momento, parli in italiano nasce da un racconto che mi venne fatto dal giudice Di Lello. Il giudice Di Lello è stato, anche se poco noto, il collaboratore più stretto di Falcone ai tempi dell’istruzione del Grande Processo. -No? Bene.-

Di Lello mi raccontò che … Io dissi: “Come interrogava Falcone i mafiosi?” E Di Lello mi disse: “Ah! Subito li metteva come a loro agio. Già subito parlava in dialetto. Non usava mai l’italiano. Parlava con loro sempre in dialetto. E quindi immediatamente creava una sorta di non-distanza fra lui e la persona che stava interrogando.” Un giorno interrogò un tale che si chiamava Pino Piddharo. Ora ‘Piddharo’ è un soprannome, significa ‘conciapelle’. E gli disse entrando: “Bongiorno Piddharu, comi ti senti oji? Si’ bonu di saluti? Picchí avim’ a fari un travaglio longo”. E quello rispose: “Dottore, lei mi sta interrogando. La prego di non usare il dialetto. Usi l’italiano. Io mi chiamo Pino, soprannominato ‘Il Conciapelle’. Ora vada avanti lei”. Ecco. Questa distanza, presa di distanza da parte del mafioso mi insegnò moltissimo. Cioè il mafioso voleva che il Falcone parlasse in italiano, che era la lingua a un tempo comune, ma nello stesso tempo la lingua nella quale si redigono le leggi, nella quale -diciamo- la giustizia fa il suo corso. Voleva che il dato dialettale, e cioè quello che mette più in contatto due persone si parlano, fosse in quel momento tirato via dal discorso. Solo l’ufficialità contava. Ecco perché Montalbano, quando parla, è come se dicesse: “Questo te lo dico in modo ufficiale. Te lo dico senza possibilità di equivoci”.

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C’è anche tanto verismo linguistico nei suoi scritti. Come, ad esempio, nella saga di Montalbano, in cui l’italiano personalissimo (o l’idioletto) di Catarella poco si discosta da una certa diffusa realtà linguistica: l’italiano standard viene imitato malamente con preziose ed espressivissime inserzioni della parlata locale.

Secondo lei, l’esistenza di diversi Catarella sparsi nella Penisola rivela che il dialetto è ancora la prima lingua di tanti italiani?

Beh, sì! Perché poi quando parla con altri funzionari, mi dicono: “Sa, il mio Catarella…”. Quindi, evidentemente, in ogni ufficio c’è qualcuno che, credendo di parlare in italiano, in realtà parla alla Catarella. E quello è un linguaggio che io ho preso dai pupari. Quando ero ragazzino e andavo all’Opera dei Pupi, i pupari facevano parlare Orlando e Rinaldo alla Catarella.: “Andiamo a lo castello, così lo potiamo trovare”, non “lo possiamo”, ma “lo potiamo”. E via di questo passo. Catarella l’ho ripreso molto da Pirandello, appunto. “Ulisse”: Ulisse parla un siciliano che vorrebbe essere in realtà italiano, facendo delle storpiature terribili. È questo un po’ il linguaggio che faccio operare a Catarella: un idioletto dentro il tentativo di un idioletto.

(5)
Nella storia, nella letteratura, nel mito, la scarsità (o l’assenza) della capacità fisica di vedere si accompagna al genio fondante (Omero), alla verità oltre la realtà presente (Tiresia), alla forgia in versi della caduta dell’uomo (John Milton), solo per citare i primi che vengono in mente.

Cosa ci dobbiamo aspettare da Lei? Da  Camilleri, ci si potrebbe aspettare -quanto meno- una vera e propria questione camillerica?

(Ride) Grazie. Non ho meritato la cecità dalla nascita. La mia è una cecità insorta negli ultimi due anni. Quindi, esiste una realtà, da aver vissuta e vista, che continua a vivere dentro di me. Quindi, non credo che succederanno grossi cambiamenti. Avvengono in un altro senso, molto più intimo. Alcune cose che ti erano inutili, le senti ora preziose. Altre cose che ti parevano preziose, capisci che sono inutili. È una consapevolezza che acquisti con la cecità. Non credo che riuscirò, data l’età avanzata, a farne frutto nella mia scrittura.

(6)
Nel 2009 in una sua intervista a “la Repubblica” dichiarava: “Perfino Leonardo Sciascia mi ripeteva: figlio mio, ma come vuoi che ti capiscano i lettori non siciliani?”. Nonostante tutto Lei ha deciso di raccontare le sue storie in una lingua “ibrida”, difficile da descrivere ma del tutto intellegibile e di grande successo. In che modo Camilleri definirebbe la lingua di Camilleri?

Non so. Io la chiamo vigatese e mi salvo per il rotto della cuffia. Vede, io mi trovavo in una situazione disperata, diciamocelo chiaro. Con la sola lingua italiana io non riuscivo a dire tutto quello che avevo in mente da dire. Ecco qua.  Quindi, ho dovuto per forza “o ti mangi sta minestra o ti butti dalla finestra”. Leonardo diceva: “Ma cu ti capisci?” E io: “Ma, Leonà, iu accussì sacciu scriviri. Pazienza, mi capiranno in tre”. E così hο perseguito, sapendo e augurandomi che al massimo, se fossi stato riconosciuto come scrittore, sarei stato uno scrittore di nicchia, quello che ha i suoi 15 lettori manzoniani, o quanti sono, e buonanotte. E mi sarei sentito pago. Tutto quello che è successo dopo, io non me lo spiego. Ho cercato sempre di farmi capire, perché se mi rendevo conto che, mentre scrivevo, una cosa non sarebbe stata capita, ho cercato di spiegarla nel contesto. E questo forse mi è venuto dall’esperienza televisiva, quando io producevo le primissime commedie di Edoardo. Edoardo De Filippo modificava delle parole napoletane con parole che più si avvicinassero all’italiano, per cercare di farlo capire: “Camillè, facciamo un mestiere che dobbiamo farci capire”. Ecco, quando ho scritto e anche quando scrivo, come ne ‘Il re di Girgenti’, che è il massimo della mia ricerca linguistica, io cerco sempre di far capire, spiegando due righe dopo la situazione.

(7)
Strettamente collegata alla domanda precedente è la questione del processo creativo. Se c’è, quale è il procedimento o lo sviluppo creativo che dà vita alla sua lingua?

È continuamente una lingua in evoluzione, perché mi invento altre cose, modi che secondo me sono più espressivi, rendono meglio. Per esempio, ho avuto sempre una preoccupazione: il linguaggio che adopero per Montalbano non è lo stesso che adopero per ‘Il re di Girgenti’ o per ‘Il birraio di Preston’ o per ‘La concessione del telefono’. È più semplificato, reso più comprensibile. Perché dicendo: “Io sto scrivendo un romanzo poliziesco che già in sé contiene un problema da risolvere. Se ci aggiungo anche un problema della mia lingua, nessuno capisce più nulla”. E allora lì mi sono mantenuto, soprattutto nei primi Montalbano, in un vigatese più comprensibile. Ma via via che capivo che ce la potevo fare, avvicinavo sempre di più la scrittura di Montalbano alla scrittura dei romanzi storici, degli altri miei romanzi.

(8)
Nel 2013 in un’altra sua intervista invitava al minore provincialismo e al recupero della lingua italiana, affermando che “i dialetti sono la forza della lingua”. Proprio perché la dialettologia italiana è una delle aree di ricerca del dipartimento di italiano all’università di Cambridge, sarebbe molto interessante se Lei potesse approfondire la questione del rapporto dialetto/lingua nell’Italia di oggi.

Il dialetto in Italia è sempre stato, da un certo periodo in poi, un oggetto politico e non un oggetto linguistico. Subito dopo l’unità d’Italia, un autore piemontese, Vittorio Bersezio, scrive una gran bella commedia, Le miserie ‘d Monsù Travet, e la scrive in dialetto piemontese. Viene richiamato dal patrio governo e gli dicono: “E no. Ora abbiamo l’Unità d’Italia, caro Bersezio. Per favore, piglia sta commedia dialettale e la scrivi in italiano”. E il povero Bersezio è costretto a pigliare una commedia dialettale che aveva scritto e a riscriverla in italiano. E perché ora siamo italiani e dobbiamo parlare un’unica lingua. Quindi, non si tratta di convivenza, fin dall’inizio, tra dialetto e lingua. Si tratta di abolizione del dialetto a favore della lingua. Questo enorme errore viene, con maggior forza, ripetuto dal fascismo, perché il fascismo non può tollerare, in un’Italia fascista, i dialetti. E quindi ci sono continuamente dei diktat da parte del ministero della cultura perché il dialetto è severamente proibito. Questa gente non si rende conto che l’Italia, povera com’è, possiede una ricchezza e la ricchezza sono i dialetti, i vari dialetti. Ora, da un bel po’ di tempo a questa parte, ritorna l’uso politico del dialetto. I leghisti vorrebbero il dialetto lombardo insegnato e lingua ufficiale. Ma no! I dialetti, secondo me, costituiscono la linfa del grandissimo albero della lingua italiana. I dialetti esistono e hanno ragione di esistere in quanto esiste l’italiano. L’italiano è nato prima dell’Unità d’Italia. Noi abbiamo un fenomeno straordinario che è quello che io trovo nella libreria di mio nonno l’edizione del 1840 de ‘I promessi sposi’ che mio nonno leggeva: è in italiano, vent’anni prima dell’Unità d’Italia. Quindi, il dialetto è proprio dove l’albero della lingua affonda le sue radici. E siccome, come sempre avviene, il processo di crescita della lingua è centripeto, cioè a dire che dalla periferia va al centro… Per esempio, un amico mio che era andato via dalla Russia durante la rivoluzione del ’17 e ci tornò nel ’60, mi disse: “ma io non capisco più la lingua russa”, perché tutta la lingua operaia, la lingua contadina che esisteva ai margini, con la rivoluzione, col comunismo, entrarono nel grande albero della lingua russa. Ora è questo che non dobbiamo cercare di non perdere: la nostra linfa. Perché altrimenti rischiamo che l’albero abbia poca linfa, le foglie si ingialliscono e vengono sostituite da innesti stranieri. Le lingue così muoiono, me lo insegnate voi. Muoiono perché accanto c’è una lingua più forte che, a poco a poco, comprime e fa scomparire la lingua che è accanto. Ecco, non vorrei che questo accadesse con la nostra meravigliosa lingua, che già ha subito attraverso la televisione un processo di omologazione  e di banalizzazione. In più ci mettiamo anche con l’eliminare i dialetti. Quello diventa un albero senza radici. E l’albero senza radici è destinato a morire.

(9)
Quindi, l’unico modo per preservare e conservare la lingua italiana è conservare i dialetti italiani in primis?

Io non dico che l’atto notarile deve essere scritto in lombardo o in siciliano. Io dico come materia di studio nelle scuole. Mezza letteratura italiana è fatta di dialetto. Dove lo vogliamo mettere Carlo Porta? Dove lo vogliamo mettere Ruzzante? Dove lo vogliamo mettere Goldoni? Certe opere genovesi? Certe opere toscane scritte in toscano? E Gioacchino Belli? E Cesare Pascarella? L’abate Meli? Ma se la letteratura italiana nasce da alcuni dialetti. Ma se perfino Dante nel suo De Vulgari Eloquentia paga il debito ai poeti e alla scuola siciliana di Federico II. Perché vogliamo negare questa che è una realtà e una forza? Non mi sembra di combattere una battaglia di retroguardia. Mi sembra di combattere una battaglia di avanguardia, dicendo: “Attenzione, abbiamo delle miniere che stiamo disperdendo”.

(Pubblicato l’11 settembre 2020 / First published on September 11, 2020)

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